In diverse realtà sportive, anche nelle riunioni dei dirigenti e non solo sui social, si sente questa frase “siamo una grande famiglia” o si legge tra gli hashtag #wearefamily o affini. Di solito la reazione che si cerca di nascondere all’udire/leggere queste parole è un brivido di freddo imbarazzo scorrere lungo la schiena.
Per quanto mi riguarda le realtà sportive, specie quelle di alto livello, non è possibile parificarle ad una famiglia.
Sicuramente è un luogo che deve essere il più affine possibile ai nostri valori e dove dobbiamo entrare serenamente con il sorriso, ma c’è un limite.
Il limite riguarda proprio il concetto di famiglia:
1) per la famiglia si fanno sacrifici, per una società sportiva, qualsiasi sia l’incarico, si garantisce l’impegno;
2) per la famiglia si è presenti 24/7 con testa e cuore, in una realtà sportiva si ragiona per le 8h lavorative quotidiane;
3) in una famiglia ci sono legami germani, in una realtà sportiva le valutazioni devono (dovrebbero) essere obiettive sulle competenze.
L’equilibrio casa-lavoro che tanto si sta cercando dal 2020 a oggi è proprio questo: riconoscere che la propria realtà sportiva, per quanto rappresenti un luogo importante nella vita, non è la propria casa, né i colleghi la propria famiglia, per quanto forti si possano instaurare i legami.
Spesso di questo tipo di legame insano che si viene a creare, ne approfittano i GM con pochi scrupoli. Capite bene che tocca a quel punto a noi consulenti/dirigenti porre dei limiti e mettere i puntini sulle “i”. Nel 2023 non è possibile e corretto che vi siano distorsioni di questo tipo nelle società sportive italiane, specie di vertice e indipendentemente dallo sport svolto.
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